lunedì 23 novembre 2009

Memorie statiche

Non faceva troppo freddo e c'era silenzio. Stranamente. L'andirivieni dei treni e il loro susseguirsi ad orari stabiliti era rallentato, qualche macchina con una luce fulminata passava di tanto in tanto, un gatto rovistava la spazzatura caduta dal cestino strabordante. Io ero lì da anni, non ricordo nemmeno più quanti ne erano passati ed era strano, la quiete inusuale di questo silenzio era strana. Un urlo dietro l'angolo, dove c'è il negozio di abbigliamento cinese: un urlo di donna, è una ragazza. Non si capisce se sia italiana oppure no, non si capisce se sia una prostituta oppure no. Io sono immobile, non posso muovermi, anche se vorrei. Inciampando su uno dei tacchi probabilmente rotti cade vicino a me. Un gruppo di quattro ragazzi, robusti e visibilmente alterati da qualcosa. Hanno gli occhi iniettati di sangue, una risata isterica. Si capisce perché la inseguono, è chiaro il loro intento. Io non posso far nulla, sono soltanto la rete arrugginita che costeggia i binari intorno alla Casilina. Non posso far nulla, nemmeno urlare. Vorrei ma non posso. L'afferrano. Uno di loro, il più piccoletto, riesce a prenderla dai capelli e le tira un ceffone che fa la azzittire.

C'è di nuovo silenzio.

Lei passa le mani tra le mie maglie come a volermi chiedere di fare qualcosa. Stringe forte con le dita, le unghie laccate mi graffiano. Mi fa male. Due di loro le afferrano le braccia e la spingono contro di me. Il più grosso, probabilmente il capo branco a cui spetta il primo morso della preda, si avvicina. Il ghigno si allarga, il grugno rimane serio, appuntito. Le alza la gonna. Io non vedo, sento solo il peso di tutti e cinque su di me. Mi inarco, li sorreggo. La mia ruggine si attacca tra i riccioli della ragazza, le entra nella lana del maglione nero che indossa e allo stesso modo i suoi capelli restano impigliati in me, il suo profumo mi pervade. Due, tre, quattro. E' finita, scappano ghignando, così come erano venuti. Lei piange e riesce a trascinarsi via, dopo un po' si perde in un vicolo.

Un lungo capello nero.
Il vento del mattino lo sorregge nell'aria, ma io non lo lascio andare, no, questo non lo lascio andare.

2 commenti:

  1. Immobilità, impossibilità, forse solo curiosità, forse ancora voglia di vedere se e quanto non si conosca la natura umana, forse il fatto che sentire la sofferenza senza poterla vedere ci rende non complici, forse il primato della descrizione di fronte al secondo posto dell'accadimento in sè. Forse semplicemente il fatto che di fronte alla bestialità rimane solo l'immobile osservazione della miseria, forse aver capito che la violenza è si per sè l'unica espressione delal profondità dell'Uomo....forse.... l'unica sicurezza è che anche io avrei tenuto il cappello. Ci sono cose che costano molto meno della pulizia della coscienza! Per tutto il resto chiderei a Laura!

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  2. Hai colto a pieno, grazie per il commento bellissimo.

    ...il capello è per non dimenticare, ma prima o poi si dissolverà, come questa triste storia di ordinaria incapacità d'azione.

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