giovedì 17 gennaio 2013

Conversazione laconica

- «L'altra mattina sono uscito molto presto, faceva freddo e appena ho aperto la porta sono rimasto per un attimo sull'uscio - come impietrito; un brivido - ho dato una bella boccata d'aria, tirato su il bavero della giacca e via, sono sfrecciato fuori. Camminavo a passo svelto; lunghe falcate sull'asfalto ancora un po' umido dalla notte precedente - notte luminosa, ricordo ancora quella luna immensa che illuminava i monti dietro al campanile - e sorridevo ai passanti e ai negozianti affaccendati che alzavano le serrande. Mario apriva il bar, non avevo tempo di aspettare, c'ho provato, ma stavo lì e saltellavo sul posto per il freddo, usciva fumo dalla bocca e le mani si stavano spaccando, sebbene continuassi a contorcerle tra loro, come quando ci si insapona e poi si sciacqua, sfregandole. Via, sono scappato, era tardi. 

Mi sono girato di scatto e ho quasi calpestato il cagnolino della signora Torquati, quel carlino dagli occhi a palla. Non m'è mai piaciuto troppo, mentre la signora Torquati era la mia insegnante di storia dell'arte al liceo, l'ho fatta dannare e mi sento sempre un po' in debito con lei che era tanto buona, allora scambio un po' di convenevoli ogni qualvolta la incontro. Chissà dove andava così presto, forse al mercato. Ieri era martedì, andava sicuramente da Carlo, il martedì gli arriva il pesce fresco. Il pesce azzurro di Carlo non si batte, lo prende da un suo cugino che sta giù sulla costa, un tipetto affabile dalle mani che sembran morse, tira su le reti come un forsennato, s'inoltra da solo, al massimo in compagnia di qualche gabbiano che spera sempre in qualche premio a fine giornata, pesce di scarto, per lo più. 

Saluto la signora Torquati e continuo a camminare. Sono un po' in ritardo, affretto il passo. Incontro il ragazzo dei giornali, Mauro lo spazzino muto, Pierangelo il barbiere con il parkinson, poverino, ormai rapa solo i militari e i ragazzini con i pidocchi, usa la macchinetta. Vedo Lella, la farmacista, mi sorride e mi manda un bacio. Che carina Lella, se non fosse che ha quella risata stridula che mi manda in bestia. Ecco, arrivo al parco ed è un sogno. Puntuale come un orologio che funziona bene. Il ritmo e la cadenza è quello di una goccia che scivola dal rubinetto di mia nonna: tic...tic...tic...non stillicidio, ma piuttosto rintocco di sicurezza, eco nella cucina silenziosa alle due del pomeriggio, durante quei meriggi così taciti, quando il tonfo più forte lo fa il pulviscolo che prima danza tra i raggi della finestra, attraverso la vecchia tenda di lino e poi bam, arriva a terra, si posa e riparte a ballare. Be' sì, anche il nonno russava un casino.

Ad ogni modo era lì, sinuosa e leggiadra, sola, ma circondata; imponente e al contempo così delicata. Ogni mattina arrivo per vederla rifiorire ancora, ma non ho mai il tempo di coglierla, di strapparla e portarla a casa con me. Dovrei farlo, provare a convincermi che il suo profumo mi darebbe ancora più forza, potendola avere per tutto il giorno? Accudirla con amore per sempre? Che dici? Consigliami tu!

- «Boh, di botanica non capisco niente» 

- «...»


(Ora bisogna capire chi dei due ha detto meno)

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